The social dilemma #socialcringe

Come fai a svegliarti da Matrix se non sai di essere in Matrix?

Avete mai provato a non usare i social media per una settimana?

Io ci ho provato diverse volte e ho fallito miseramente

Un po’ per il mio lavoro che mi “impone” di essere (quasi) sempre connessa, un po’ per una vera e propria dipendenza.

Ogni anno cerco di concedermi un social detox e, senza esagerare, i benefici sono tantissimi.

Non sbaglio dicendo che, per molti, i social sono un’evasione, un mondo diverso e non accessibile a tutti dove esprimersi (quasi) liberamente. Con i suoi Pro e Contro.

The social dilemma

The social dilemma, documentario disponibile Netflix, racconta fin troppo realisticamente questo fenomeno simbolo del nostro secolo.

Il protagonista, Ben, mostra sin da subito una profonda dipendenza dai social e, nel momento in cui gli viene imposta una settimana senza social e telefono, i molteplici disagi psicofisici emergono prepotentemente. Il più evidente è il cosiddetto craving cioè il desiderio di ottenere gratificazione come un like, un commento a tal punto da diventare ossessione.

Fin qui sembrerebbe tutto “normale” MA viene quasi subito introdotta l’altra faccia della medaglia, inquietante quanto realistica, che vede il meticoloso lavoro di un gruppo di esperti.

Essi creano “letteralmente” cloni virtuali di Ben che attraverso tecniche ben collaudate (data mining, vendita dati personali) forniscono immagini e informazioni mirate manipolando completamente il ragazzo e rendendolo “schiavo” attraverso il rinforzo positivo intermittente che, in questo caso, si traduce nello scroll infinito delle bacheche e nel controllo ossessivo delle notifiche.

Vittime o carnefici?

Nel corso del documentario intervengono ex-dipendenti di vari social network che spiegano più nel dettaglio il funzionamento di tutti questi meccanismi. 

Come in The Great Hack (da leggere QUI) emerge il fatto che, agli albori dei social e del web come principali mezzi di comunicazione e guadagno, gli addetti ai lavori non si siano resi del tutto conto della bomba a mano che avevano tra le mani, soprattutto sul lato etico.

Saranno stati davvero così inconsapevoli e ingenui? Alcuni di loro sostengono di essere stati loro stessi vittime del sistema.

Nel momento in cui gli inserzionisti sono entrati nel mondo del web e dei social ciò che da sempre veniva applicato sui mezzi tradizionali ha avuto effetti più estesi, profondi e immediati. Si parla addirittura di “Modello imprenditoriale di disinformazione a scopo di lucro.”

Penso sempre che sia necessario istituire il prima possibile, oltre che una regolamentazione seria, un’educazione digitale. 

Tutto ciò che facciamo è tracciato (GPS, (cronologia, tempo di coinvolgimento, tempo di visualizzazione).

Cancellare una foto, un commento non vuol dire eliminare definitivamente il problema. Pubblicare millemila foto non garantisce alcuna sicurezza perchè “tanto lo pubblico solo lì o lo posso cancellare”.

Manipolazione (in)consapevole?

Se non stai pagando per il prodotto, allora il prodotto sei tu.

Altro concetto cardine che spesso si sottovaluta: ogni dato che noi forniamo diventa uno strumento per manipolarci e polarizzare la nostra attenzione.

Non è complottismo, è un dato di fatto che però non genera consapevolezza soprattutto nei giovani, in particolare la Gen Z.

Stiamo di fatto usando e comunicando attraverso supercomputer, intelligenze artificiali quali gli algoritmi. Monitorate ovviamente da esperti del settore (ingegneri, psicologi, marketer e chi più ne ha ne metta).

Non si tratta solo di e-commerce ma anche di fake news e disinformazione. La differenze con i media tradizionali è l’immediatezza della notizia e la sua diffusione. A livello globale.

Alcuni esempi globali menzionati: terra piattismo, coronavirus e pizza gate (più info QUI).

Altri più specifici tra cui il caso Myanmar, Hong Kong e le elezioni americane del 2016 definite come guerre da remoto.

I social sono davvero il male?

Se pensate che questo documentario sia solo un’invettiva contro i social network,vi sbagliate.

Giusto considerarli un’arma a doppio taglio ma, come già detto prima, è necessario diffondere consapevolezza e sviluppare un forte senso critico nel momento in cui si decide di usarli.

Soprattutto durante questi due anni di pandemia che ci ha costretto al distanziamento sociale e all’isolamento nei propri Stati, l’originaria funzione dei social di metterci in contatto con le persone è stata fondamentale.

Non credo che ne saremmo usciti così mediamente ammaccati (psicologicamente parlando) in caso contrario.

Altri aspetti positivi riguardano lo sviluppo di attivismo online con il “lancio” di hashtag tematici che ha permesso di dar voce a cause che altrimenti sarebbero rimaste inascoltate e sconosciute.

Per non parlare dell’aiuto nel combattere l’emarginazione di categorie deboli o discriminate.

Esistono soluzioni?

The social dilemma “spilla” qualche consiglio su come evitare di diventare un esperimento sociale: provare a disattivare le notifiche, variare le proprie fonti d’informazioni (spesso iper politicizzate) e ampliare gli interessi.

Ciò che posso consigliarvi è di essere sempre consapevoli di ciò che fate e dite.

Siate aperti al confronto, accettate le critiche costruttive, denunciate gli abusi e, se pensate di non avere più il controllo, chiedete aiuto.

Nella vita reale come in quella virtuale.

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